Quante differenze tra Serie A e le altre Leghe
La Serie A resta alla finestra. Mentre in tutta Europa il calcio si rimette in moto. Rigorosamente a porte chiuse. Ma questo era risaputo. Alcune delle principali Leghe europee, infatti, hanno deciso di gestire l’emergenza diversamente dall’Italia.
Nessun lockdown draconiano, dunque, e ritorno ad una pseudo normalità. La Premier ha annunciato un nuovo via libera per il 12 giugno. La Liga ripartirà tra un mese.
La Bundesliga, invece, ricomincia oggi pomeriggio, a far rotolare il pallone. Con la novità delle cinque sostituzioni. Come da proposta Ifab, accettata dalla Fifa. E sarà subito spettacolo ed emozioni, nonostante gli spalti desolatamente vuoti. Niente Muro Giallo, quindi, nel derby della Rurh tra Borussia Dortmund e Schalke 04.
Tra le cd. “Big Five”, i cinque principali campionati continentali, soltanto la Ligue 1 ha dichiarato definitivamente conclusa la stagione.
Mettendo in preventivo, da un lato, gli strali di Ceferin. Il presidente dell’Uefa ha minacciato “conseguenze per chi non finisce…”, definendo “una scelta affrettata…”, quella della federazione transalpina.
Dall’altro, gli inevitabili ricorsi di quelle squadre che cercheranno, ricorrendo alla carta bollata ed ai Tribunale, di far valere l’equità sportiva ed i risultati maturati sul terreno di gioco, rispetto a quelli sanciti dalla burocrazia federale.
Comanda sempre il danaro, in tutta Europa
Le ragioni che alimentano in tutta Europa questa voglia di tornare a giocare, innanzitutto delle società, perché i calciatori, nonostante abbiano preferito non esporsi, ne avrebbero fatto volentieri a meno, sono sempre le stesse. Comanda il denaro. Gli interessi sono troppi e incardinati tra loro, per consentire ad una “semplice pandemia” di stravolgere le consuetudini della pedata globale. Dopo averlo fatto con le usanze civili e sociali dell’intero genere umano.
Sostanzialmente, bisogna ricominciare, in quanto la conseguenza diretta di una chiusura anticipata dei campionati, comporterebbe il mancato pagamento dei famigerati diritti televisivi. Un’ipotesi neanche presa in considerazione da proprietari vari e padroni del vapore assortiti. Accomunati dalla ritrosia a cacciare soldi cash dalle loro tasche.
In effetti, da qualche anno a questa parte, chi occupa la presidenza di una società appare sempre meno un appassionato, imprenditore del business legato all’intrattenimento calcistico. E sempre più, invece, uno speculatore finanziario. In soldoni, un semplice gestore di risorse economiche altrui.
Lo spettro di clamorosi fallimenti, annunciati nemmeno tanto velatamente da troppi plenipotenziari, ha fatto da spartiacque tra una scelta immancabilmente amorale, ed una decisione magari maggiormente condivisibile dal punto di vista etico.
La Serie A prigioniera della confusione politica
Come al solito, però, quello che veramente contraddistingue l’Italia dagli altri, è l’atteggiamento ondivago e farraginoso di chi, per ruolo istituzionale, sarebbe tenuto a fare scelte chiare e nette. Piuttosto che alimentare il disordine e la confusione, con il proprio endemico indecisionismo.
Il caos è alle porte. Come spesso accade, del resto, nell’italico pallone, da quando è obbligato ad interagire con chi dirige politicamente il Paese. Occorre procedere con ordine, per comprendere appieno quanto sia difficile cercare di rimettere realmente in moto, non solo a chiacchiere, il campionato.
Innanzitutto, la stragrande maggioranza dei club è in totale disaccordo con il protocollo approntato dal comitato tecnico scientifico del Governo e approvato dalla Figc. Nello specifico, ritengono sostanzialmente inapplicabili almeno un paio di norme.
Chiedono che il protocollo per un corretto allenamento, che renda i giocatori totalmente sicuri a riprendere l’attività in gruppo, venga rivisto. Reso più conforme alle esigenze specifiche di una squadra di calcio. Altrimenti, minacciano seriamente di non ricominciare le sedute collettive, calendarizzate a partire dal 18 maggio.
Nessuno vuole la clausura
Paradossalmente, i nodi principali della contestazione, accomunano dirigenti e calciatori. E vertono tutti attorno a due argomenti specifici.
Il primo relativo al diktat che impone il ritiro in hotel al cd. “gruppo squadra”. Ovvero, quella cinquantina di persone, tra giocatori, tecnici e staff di supporto medico e organizzativo, che dovrebbero forzatamente essere ristretti nella bolla ovattata della clausura perpetua, fino al termine del campionato. Così da evitare contatti potenzialmente nefasti con l’esterno.
Quasi nessun club ha una location capace di soddisfare questa richiesta imperativa dell’Esecutivo. Alcuni avrebbero proposto di dividere il gruppo, alloggiandone una parte all’interno dei propri centri sportivi, fino ad esaurimento delle stanze. Dirottando il resto della comitiva in strutture alberghiere esterne. Una contraddizione in termini, ovviamente, che stravolgerebbe la ratio della norma, volutamente restrittiva, per ridurre al minimi l’isolamento al di fuori di una cerchia ristretta.
Immancabilmente, pure il sindacato s’è messo di traverso. L’A.I.C. boccia la clausura.
La gestione dei “positivi” è aspramente contestata
Tra l’altro, appare in totale disaccordo anche con le modalità di gestione di eventuali positività tra i giocatori, sopraggiunte dopo la ripresa dell’attività agonistica collettiva, considerate non idonee a garantire la conclusione del campionato.
Ad aggravare la situazione, il fatto che la responsabilità penale a carico dei medici sociali diventerebbe pressochè illimitata, qualora dovesse sopraggiungere qualche contagio, post ripresa degli allenamenti collettivi. I medici chiedono uno “scudo penale”, che sulla scorta delle leggi in vigore attualmente, è inapplicabile.
Effettivamente, la contestazione all’obbligo di mettere in quarantena per 14 giorni l’intero gruppo, nella malaugurata ipotesi in cui dovesse apparire anche solamente un positivo, fonde le rimostranze tanto dell’assemblea dei presidenti riuniti in Lega, quanto quelle dell’Assocalciatori.
E poco importa che il Ministro dello Sport, Vincenzo Spadafora, si dimostri possibilista circa la possibilità di affievolire la quarantena di squadra obbligatoria. Quando dichiara che “se la curva dei contagi lo consentirà, saremo pronti a rivedere la regola in maniera meno stringente. Da parte nostra non c’è nessun ostruzionismo…”, mente spudoratamente.
Consapevole che le indicazioni del comitato tecnico scientifico sono considerate dal Governo “stringenti e vincolanti”. Ergo, difficilmente bypassabili.
Spadafora mente consapevolmente
E continuano a rappresentare una spada di Damocle, perennemente in bilico sulla testa del campionato. Un ostacolo alla ripresa della Serie A, che nessun altro governo europeo ha imposto ai rispettivi campionati.
Creando delle perplessità non indifferenti sulla vera volontà di ripartire. In pratica, Spadafora parla di riapertura del campionato, non escludendone una successiva chiusura.
Probabilissima, alla luce del fatto che una volta iniziate le trasferte, il pericolo di contaminazione si impenna in maniera esponenziale. A quel punto, basterebbe un solo giocatore positivo a bloccare il campionato.
Il vero punto interrogativo è quello sulla effettiva volontà di portare a termine la Serie A. Invece che limitarsi a fare mera propaganda politica. Forse, sarebbe stato assai più semplice e funzionale seguire l’esempio della Germania. Ovvero, mettere in isolamento solo il giocatore eventualmente contagiato, fare i tamponi al resto del gruppo e riprendere gli allenamenti.
Peccato che Spadafora sia nato ad Afragola e non a Berlino!
Francesco Infranca
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