Il Napoli di Antonio Conte ha depredato Bergamo con un 3-2 che sa di battaglia campale, piegando l’Atalanta al termine di una contesa colma di sfaccettature e imprevedibilità. Una partita che il fato avrebbe potuto indirizzare ovunque, ma che gli xg certificano appena a favore dei Partenopei. La banda di Conte, pur rinunciando a un baricentro alto e incassando due gol, ha mostrato una concretezza chirurgica, colpendo con precisione là dove gli Orobici avevano lasciato un varco.
Stendiamo un velo, ma che sia di broccato, su certi commenti di quel tempio profanato del Fantacalcio, giustamente deriso dal web a colpi di meme, come fossero frecce avvelenate di un giullare di corte. Voti negativi a Hien e Rrahmani: sì, non perfetti, ma gladiatori a loro modo, vincitori di duelli che erano la chiave dell’intera disfida. Perché, diciamocelo, in quei duelli si è giocato tutto: sudore, anima, battaglia. Gasperini, quel folle architetto di caos ordinato, costruisce squadre che accettano la sfida, l’uno contro uno, sempre e comunque, come una sfida ai capricci del destino. La condizione fisica attuale della sua banda non era misera, certo, ma lontana da quella diabolica e irripetibile perfezione della gara d’andata. Un’Atalanta che danza sull’orlo del precipizio, ma stavolta senza il passo giusto.
Il Napoli di Conte, in scena, non è perfezione ma un moto ascendente: fisico, atletico, tattico, mentale. Una macchina in rodaggio, sì, ma già capace di mordere l’anima della partita, nonostante l’assenza di Buongiorno, il faro spento della difesa. Eppure, là dove la qualità sembra latitare, sorge la parabola di Juan Jesus: il calciatore che, accusato e deriso, si alza contro il coro come un Don Chisciotte di provincia, vestito di modestia e dignità, pronto a sfidare i mulini a vento di critiche sterili.
Poi c’è Lobotka, lo slovacco con il cuore pulsante di un direttore d’orchestra, ridotto a un misero 5,5 dai sedicenti giudici delle pagelle, mentre dalla cabina della tv portoghese piovevano elogi come petali di rose. Conte stesso, uomo di battaglie e trincee, ne ha riconosciuto la grandezza.
Ma mi chiedo: è forse troppo pretendere di guardare una partita con occhi sobri e mente lucida? Forse è il sabato sera, forse è quel bicchiere di troppo. Ma ricordate, cari esperti, che il pallone non tollera distrazioni. Né lo fa il codice della strada. Guardate, pensate, giudicate, ma fatelo con il rispetto di chi conosce il gioco e l’arte di chi lo pratica.
Hanno certamente influito, inoltre, le tante gare sulle gambe della Dea. De Roon ed Ederson, comunque abbastanza positivi, le hanno giocate praticamente tutte e non hanno un ricambio credibile. Se in altri ruoli l’Atalanta è copertissima, a centrocampo la coperta è corta. Non tanto a livello quantitativo ma qualitativo. Bene invece l’attacco, con il tanque Retegui ancora in gol dopo il rientro, e Lookman sempre una sentenza. Si è sentita, invece, in difesa l’assenza di Kolasinac. Il bosniaco non è un campione, ma garantisce la grinta e l’esperienza necessarie per poter reggere certi duelli. Grave l’errore di Scalvini, che si è perso Lukaku in occasione del colpo di testa del belga che ha deciso la gara.
Conte ha scelto di affidarsi ai gregari, quei soldati silenziosi che spesso vivono nell’ombra, un po’ come aveva fatto nei suoi primi giorni juventini. Spinazzola, ormai lontano dalle luci accecanti del suo passato, e il duttile Mazzocchi, operaio del calcio con la tuta sempre pronta, sono stati i protagonisti dei cambi principali, sacrificando l’estro degli esterni offensivi sull’altare della solidità. Certo, il destino ha giocato la sua parte – il gol decisivo è arrivato quando Neres aveva già lasciato il campo – ma Conte riesce sempre a distillare “veleno” (termine, tra l’altro, usato da un suo predecessore) e determinazione nei suoi uomini. Lontanissimi i tempi cupi del decimo posto sotto Garcia, con Mazzarri e Calzona a rincorrere il caos di una stagione senza capo né coda. Eppure, questo Napoli, orfano ora di Kvara, volato a Parigi con il miraggio del lusso qatariota, ha una fisionomia nuova, meno ispirata forse, ma più coriacea. Non è più il Napoli scintillante dello scudetto, ma una squadra con la pelle dura e lo sguardo feroce.
In sintesi, Atalanta-Napoli ci ha sussurrato – anzi, urlato – che gli Orobici non sono ancora pronti a spiccare quel salto verso la vittoria in Italia, nonostante il capolavoro a tinte forti dipinto da Gasperini negli ultimi anni. Ci ha anche mostrato, una volta di più, il tocco alchemico di Antonio Conte: un allenatore capace di plasmare le sue squadre a immagine e somiglianza del suo spirito battagliero. Dopo il 3-0 dell’andata al Maradona, quando il tecnico leccese aveva riconosciuto la superiorità dell’Atalanta, in pochi mesi ha accorciato le distanze e forse persino capovolto il copione. Chapeau a Conte, dunque. Eppure, questa vittoria non sfiora nemmeno l’immensa statura della Dea: non più una provinciale, ma un’eroina stabilmente seduta al tavolo delle grandi.