L’era De Laurentis… la rinascita sportiva

Nell’estate del 2004, l’imprenditore romano Aurelio De Laurentis ha rilevato dal tribunale fallimentare la Società Sportiva Calcio Napoli, divenendone presidente il 6 settembre dello stesso anno (anche se, inizialmente, la denominazione della nuova società era Napoli Soccer).

Costretti a ripartire dalla serie C1, gli Azzurri sono tornati nella massima serie in sole tre stagioni. Sotto la presidenza De Laurentis il Napoli ha trovato una solidità economica che ha pochi uguali in Europa. Merito di un’attenta gestione aziendale, una rarità nel panorama del calcio italiano. Parallelamente alla stabilità societaria, in queste quindici stagioni in serie A i risultati sportivi sono stati riguardevoli e costanti.

Basti pensare che nelle ultime tredici stagioni, compresa quella in corso, gli Azzurri hanno totalizzato, complessivamente, 918 punti. Sono secondi soltanto alla corazzata Juventus (1019). Sono primi per reti realizzate (891), e secondi per gol incassati (488). Purtroppo questi numeri (eccellenti) hanno fruttato soltanto piazzamenti d’onore: quattro secondi posti, tre terzi e tre quinti posti. In aggiunta, vanno ricordati i quattro trofei nazionali: tre Coppe Italia e una Super Coppa italiana.

Il catino svuotato

Di fatto, è mancato soltanto lo scudetto (gli Azzurri ne avrebbero meritati almeno due, ma questa è un’altra storia).

Peccato che di fronte a questa continuità di risultati sportivi (tredici qualificazioni consecutive nelle competizioni europee per club, unica squadra in Italia), il popolo del San Paolo non ha ritrovato lo storico calore. Nelle prime quattro stagioni del ritorno in serie A, la media spettatori è stata onorevolmente al di sopra delle quarantamila presenze (45.608 nella stagione 2010-2011, record dell’era De Laurentis). Ma nelle restanti nove stagioni (escluse le ultime due segnate dal covid-19), soltanto i due occasioni si è sfondato il muro delle quarantamila presenze in media a partita. Basti pensare che nella celebre stagione dei 91 punti (2017-2018), quando il Napoli è stato in testa alla classifica per gran parte del campionato, gli spettatori che hanno affollato gli spalti del San Paolo furono 817.942, per una media di 43.050 unità. L’anno successivo, il primo con Carlo Ancelotti allenatore degli Azzurri, la media è crollata a 29.003 spettatori. Poco più di trentunomila (calcolando soltanto tredici incontri casalinghi) nella stagione seguente.

Non c’è da sorridere, anzi, nemmeno nelle competizioni continentali. Dopo l’entusiasmo iniziale, già dalla stagione 2013-2014 le medie delle partite europee si sono mestamente allineate a quelle del campionato. Troppo spesso il San Paolo ha mostrato scenari desolanti, con numeri lunari. In particolare, in occasione degli incontri di Europa League, competizione colpevolmente ignorata dalla celebre passione azzurra: i 6.490 spettatori che l’11 dicembre 2014 hanno presenziato alla partita Napoli – Slovan Bratislava meriterebbero una medaglia al valore.

Le ragioni del declino

Nella patria degli alibi ricorrenti, è facile scaricare il barile e prendersela con il “colpevole di turno”. Infatti, per anni abbiamo puntato il dito (solo) contro le televisioni (come se nelle altre nazioni le partite di calcio venissero raccontate oralmente come l’Iliade e l’Odissea ai tempi di Omero). Una risposta (scusa) troppo facile, troppo sbrigativa, troppo superficiale. Perché i cambiamenti sociali avvengono nel corso del tempo, e spesso sono il risultato di diverse circostanze (e scelte).

È accaduto anche per il popolo del San Paolo. Così, mentre in giro per l’Europa si costruivano strutture moderne sempre più attrattive e confortevoli, noi a Napoli “combattevamo l’epica battaglia” per i servizi igienici, ma tranquilli ci arrivavamo ben temprati dalla propedeutica ed eroica lotta per il parcheggio, o per la metro. Perché nel corso degli anni, la logistica dei trasporti ha dato il suo contributo con le ripetute chiusure della metropolitana nelle ore serali prima della fine della partita.

Chi vi scrive tornò a casa – in taxi – alle quattro e mezzo del mattino dopo aver visto Napoli – Manchester City (sforzo che, giustamente, non tutti sono disposti ad affrontare). Negli ultimi trent’anni è cambiata la composizione del tifo azzurro. Andava studiata attentamente. Invece, probabilmente, Società e addetti ai lavori hanno dato per scontato il ricambio generazionale, ma oggi i ragazzi seguono poco il calcio, il loro attaccamento è meno viscerale (e non solo a Napoli).

Non vanno trascurati i costanti flussi emigratori che hanno allontanato dal capoluogo campano tanti figli del Vesuvio, e nemmeno la programmazione spezzatino delle partite (che spesso penalizza i tifosi provenienti dalla provincia). Infine, non ha aiutato a tamponare l’erosione del tifo da stadio, neanche il rapporto ondivago, a volte conflittuale, tra la nuova Proprietà e i gruppi organizzati. È molto doloroso doverlo scrivere, ma il popolo del San Paolo si è imborghesito, normalizzato, e non sempre è stato di supporto alla squadra.

Dagli spalti urla “devi vincere”, ma al primo passaggio sbagliato di Inler, Cannavaro o Insigne mugugna. Gli esempi sono numerosi, ne cito uno a caso: Napoli – Bilbao. Si lamenta del caro prezzi, ma si ricorda di andare allo stadio proprio in occasione delle partite di cartello, e diserta quelle “normali”, quando il costo dei biglietti è notevolmente più basso. Certo, la visuale dalle gradinate dell’anello inferiore è deficitaria, specie in curva (e qui la società dovrebbe intervenire con un’opportuna differenziazione dei prezzi), ma in passato non era un limite invalicabile (in più ti regala la gioia di vedere da vicino i calciatori festeggiare in caso di gol e a fine partita).

Futuro incerto

Il calcio è uno sport bellissimo, ma è anche esercizio del potere. Basti pensare che nel momento storico di maggior splendore e forza degli azzurri, il Napoli fu l’unica squadra della serie A, del lotto di Italia 90, che subì una consistente riduzione della capienza del suo impianto (con l’istallazione di seggiolini rossi!). In altre città si costruirono stadi nuovi più grandi, spesso mai utilizzati del tutto (o peggio ancora abbattuti dopo appena sedici anni). Nelle restanti si ricostruirono o ampliarono quelli esistenti.

Come scritto, fu il primo di una serie di bivi cruciali per il club. Successivamente, quando il calcio subiva la trasformazione industriale e le tv entravano a gamba tesa nel sistema, il Napoli arrancava nelle parti basse della classifica. Risultato: un crescente divario e perdita di competitività (economica e sportiva). La nuova proprietà ha ereditato (in gestione) un impianto vecchio e malandato. Per anni siamo andati avanti con rappezzi, agibilità provvisorie e convenzioni da firmare. Aurelio De Laurentis non ha mai nascosto di nutrire scarso interesse verso il vecchio San Paolo. A dispetto di sparate eclatanti (come un nuovo impianto in provincia di Caserta, o un teatro da ventimila posti), il presidente punta allo Stadio virtuale e non si è impegnato in un investimento immobiliare dall’ampio arco temporale.

Parallelamente, il bilancio comunale non ha permesso interventi realmente risolutivi. Un cul de sac rotto (solo) recentemente dall’intervento della Regione Campania che, in occasione delle XXX Universiadi, ha effettuato una consistente restyling dello stadio San Paolo. Ora il vecchio impianto di fuorigrotta presenta un colpo d’occhio e una funzionalità apprezzabilissime. Ma la questione è soltanto rimandata, perché seppur rimesso nuovo (almeno internamente), il San Paolo resta una struttura concettualmente vecchia, con spalti troppo distanti dal campo, ma soprattutto priva di quegli spazi e quei servizi che oggi rappresentano un business irrinunciabile per gli impianti sportivi. A partire dal settore della ristorazione. Prima della chiusura per covid-19, il nuovo – splendido – stadio del Tottenham, incassava oltre ottocentomila sterline a partita dal settore food and beverage, il museo del calcio del Barcellona al Camp Nou una cinquantina di milioni all’anno!

Ma oggi la nuova frontiera sono strutture ancora più tecnologiche e ambiziose, realmente polifunzionali, con terreni di gioco riscaldati e retrattili, per consentire lo svolgimento di differenti attività, non esclusivamente sportive. Soluzioni che l’amato vecchio San Paolo non può offrire. Siamo di fronte all’ennesimo bivio: abbattere il catino di fuorigrotta, e sulle sue ceneri costruire una struttura moderna (soluzione improbabile visto l’investimento della regione), o realizzare un nuovo stadio, in un altro quartiere (ma chi è pronto ad investire?). Nel dubbio (e nell’attesa) possiamo accontentarci dell’attuale impianto (non adeguato ai tempi moderni), e tornare a ripopolarlo, consapevoli però che i tempi dello storico tifo napoletano non torneranno più (anche le normative sulla sicurezza sono diverse, più severe).

Per ora è cambiato il nome. Sulle spalle del vecchio gioiello di Carlo Cocchia pesa un nome a dir poco impegnativo, quello di una leggenda: Diego Armando Maradona. Temo che quel nome rischi di essere più un peso che un’opportunità.