Nessuno se lo aspettava, tantomeno ci avrebbe scommesso. Eppure il Napoli, nonostante la stagione a tratti enigmatica, è tornato in corsa per la Champions League.

Lo dice la classifica, in modo chiaro. Inequivocabile. Del resto, il quarto posto occupato dall’Atalanta dista solo due punti.

Una cosa davvero impensabile fino a qualche settimana fa. Forse perché la squadra di Gennaro Gattuso non era ancora riuscita a palesare quella solidità che tradizionalmente si pretende da chi accampa pretese di grandeur. Almeno all’interno degli italici confini pallonari.

Ovviamente, questo rinnovato entusiasmo non è un controsenso, rispetto alle critiche mosse finora alla gestione di Ringhio. Nondimeno, appare innegabile quanto abbia fatto bene all’allenatore tornare ad una parvenza di “normalità”.

Con il recupero di qualche infortunato e la conseguente possibilità di sviluppare un calcio magari meno spettacolare. In ogni caso, assai più concreto. Orientato maggiormente alla verticalità, piuttosto che fossilizzato sul dominio del possesso prolungato. A tratti addirittura compulsivo…

Limiti, difetti e cadute di stile

Indubbiamente, a favorire la vittoria di San Siro potrebbe aver contribuito la stanchezza del Milan, largamente rimaneggiato.

Tuttavia, se le assenze non dovevano essere considerate una scusante, quando a rimarcarle era Gattuso, tentare di giustificare dal pulpito televisivo la battuta d’arresto dei rossoneri, con la medesima pezza a colori, sembra null’altro che una caduta di stile.

Equiparabile, per disonestà intellettuale, alle arroganti considerazioni personali di chi tiene gli “zii a Castellammare”.

Perché tutto si può imputare al Napoli uterino di quest’annata particolarissima, tranne che non abbia strappato con merito i tre punti alla squadra di Pioli, attraverso un piano gara all’insegna della forte personalità.

Un primo tempo impeccabile degli azzurri, in fase di non possesso. Arroccati attorno a Koulibaly, versione The Wall. Coadiuvato da un Maksimovic insolitamente concentrato.

Una ripresa all’insegna della sofferenza, comunque amministrata con intelligenza e mai veramente subita.

I partenopei, infatti, hanno associato alla compattezza tattica, una perfetta tenuta mentale. Fondamentale nell’interpretare le letture, con il pallone tra i piedi.

Una capacità di ribaltare la manovra in maniera fluida, sviluppando trame fascinose sull’asse centrale, con Demme e Fabiàn Ruiz. Concedendo a Insigne e Politano di maramaldeggiare in ampiezza. Consentendo a Zieliński di immaginare spazi da esplorare lì dove un trequartista “normale” vede solamente avversari.

Questo ha raccontato il campo. Altro che ‘na banda

Napoli, il difficile arriva adesso

Imprescindibile l’aver ritrovato entusiasmo ed ottimismo in vista della volata finale.

E’ chiaro che adesso il compito più difficile sarà quello di riuscire a mascherare limiti congeniti e difetti strutturali, provando a eluderne gli effetti nefasti sul calcio del Napoli.

Perché se da un lato la squadra partenopea ha accusato qualche passaggio a vuoto di troppo nell’arco dell’annata, dall’altro, l’impressione è che Gattuso sia riuscito ultimamente a creare una buona identità di gioco. Dimostrando di poter adattare le proprie idee alle caratteristiche tecnico-tattiche dei giocatori in rosa.

Sostanzialmente, una duttilità funzionale a proporre una manovra più diretta e verticale.

Una visione a lungo raggio, uno sguardo al futuro su cui fondare le prossime scelte. Con l’idea di costruire una squadra che esalti offensive players dall’indole spiccatamente orientata alla profondità, come Osimhen e Lozano

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